San Saturnino — chiamato anche Saturno — è uno dei più antichi martiri venerati nell’area mediterranea; la tradizione lo colloca nella Cagliari tardoantica e lo vuole decapitato durante le persecuzioni romane agli inizi del IV secolo; il luogo della sua sepoltura divenne presto meta di venerazione e vi sorse la basilica paleocristiana oggi nota come San Saturnino, un complesso che costituisce un nodo di archeologia, storia religiosa e identità urbana; la sua memoria liturgica si celebra il 30 ottobre e, per secoli, la ricorrenza ha avuto un peso centrale nel calendario festivo della Sardegna meridionale, con processioni che uscivano dal Duomo verso la basilica, offerte votive dei ceti cittadini, ceri, stendardi e musiche che trasformavano Cagliari in uno spazio cerimoniale condiviso, in un tempo in cui la festa religiosa era insieme rito sacro, istituzione civica e teatro pubblico della città.
Nel più vasto paesaggio delle feste sarde — popolato da figure fortissime come Sant’Efisio a Cagliari, San Giovanni e San Costantino a Sedilo, San Simplicio a Olbia, San Michele a Bessude, Sant’Antioco nel Sulcis — il culto di Saturnino ha avuto un carattere meno “spettacolare” ma più antico e strutturale: la sua festa non coincideva con la grande mobilitazione di massa tipica dei santi “protettori dell’economia” o delle feste di traslazione, ma segnava un punto della memoria profonda, quasi una radice della città cristiana; se Sant’Efisio incarna il voto pubblico e la città che cammina in processione sino al mare, Saturnino rappresenta la città raccolta attorno a un trauma fondativo — il martirio — trasformato in identità; questa distinzione interna alla tradizione festiva sarda spiega perché il culto di Saturnino non scompare quando decadono le forme pubbliche tradizionali, ma si ridefinisce.
Oggi la festa ha un volto diverso ma tutt’altro che spento: prevale la dimensione liturgica (messe solenni, momenti di catechesi, adorazione), ma attorno alla basilica si accende un’economia culturale della memoria fatta di visite guidate, pubblicazioni, conferenze, percorsi di educazione al patrimonio e integrazione nei calendari di turismo religioso; l’attualità della festa di San Saturnino si inserisce in un trend più ampio che coinvolge molte feste sarde: non basta più la processione — serve anche la riscrittura culturale della memoria, la documentazione, l’apertura dei siti, la narrazione turistica, la didattica del rito; è la stessa logica che ha trasformato molte feste in Sardegna da sole devozioni locali a dispositivi identitari pubblici, inseriti in agende comunali, in progetti di valorizzazione UNESCO, in piani di turismo lento e percorsi tra fede e paesaggio.
La festa di Saturnino, dunque, non “resiste” semplicemente: cambia registro; non è più il grande teatro di popolo, ma un rito-sorgente che parla alla contemporaneità attraverso il linguaggio del patrimonio e dell’identità; in una Sardegna che vede le sue feste antiche oscillare tra religione, economia locale, narrazione del territorio e patrimonializzazione — basti pensare al ruolo di Sant’Efisio nella costruzione dell’immagine di Cagliari o alle Ardie di Sedilo come patrimonio conteso tra rito e turismo — San Saturnino offre un caso di continuità discreta: un martire antico che non ha bisogno del clamore per restare significativo, perché forma il basso continuo della memoria cristiana di Cagliari; la sua festa è oggi un ponte tra archeologia e fede, tra archivio e presente, tra la Sardegna che trasmette e quella che interpreta, in un equilibrio che fa della persistenza silenziosa una forma di attualità.


