Il giorno di Santo Stefano arriva subito dopo il Natale, quasi senza concedere il tempo di assaporare fino in fondo la dolcezza della nascita. La Chiesa, con una sapienza antica e sorprendentemente attuale, accosta la mangiatoia al martirio, la luce tenera di Betlemme alla durezza delle pietre. Come a dirci che l’incarnazione non è una parentesi rassicurante, ma una scelta che attraversa la vita fino alle sue conseguenze più radicali.
Santo Stefano è il primo martire, il primo a pagare con la vita la fedeltà al Vangelo. Non è un eroe armato, non è un ribelle violento, non è un uomo in cerca di visibilità. È un diacono, uno che serve. Uno che si prende cura dei poveri, che annuncia con parole semplici e gesti concreti la novità di Cristo. Proprio per questo diventa scomodo. Perché una fede vissuta con coerenza, anche oggi, mette in crisi più di mille discorsi.
Rileggere Santo Stefano nel nostro tempo significa interrogarsi su cosa voglia dire testimoniare il Vangelo in una società spesso distratta, polarizzata, talvolta ostile a tutto ciò che chiede responsabilità e verità. Stefano non cerca lo scontro, ma non scende a compromessi. Non addolcisce il messaggio per renderlo accettabile, e non lo usa per condannare. Parla con libertà, perché è abitato da una fiducia più grande della paura.
Il momento più sconvolgente della sua storia non è la violenza che subisce, ma la parola che pronuncia mentre muore. Stefano perdona. Prega per chi lo sta uccidendo. Ripete, con la sua vita, le stesse parole di Gesù sulla croce. In un mondo in cui la vendetta sembra spesso l’unica risposta possibile al torto subito, il perdono appare fragile, quasi scandaloso. Eppure è proprio lì che il Vangelo mostra la sua forza disarmata.
Santo Stefano ci parla oggi anche di responsabilità civile e spirituale. La sua morte non è un gesto isolato: tra coloro che assistono alla lapidazione c’è un giovane di nome Saulo. Stefano non lo sa, ma il suo sangue diventerà seme. Quel persecutore diventerà Paolo, l’apostolo delle genti. È una lezione potente per il nostro presente, così impaziente di risultati immediati: il bene compiuto, anche quando sembra inutile o sconfitto, genera frutti che non possiamo prevedere.
Celebrare Santo Stefano oggi significa allora guardare in faccia le nostre paure. La paura di esporsi, di dire ciò in cui crediamo, di vivere il Vangelo senza maschere. Non siamo chiamati al martirio di sangue, ma esiste un martirio quotidiano, silenzioso, fatto di scelte controcorrente, di coerenza, di onestà, di attenzione agli ultimi. Un martirio che passa attraverso la fedeltà nelle piccole cose, spesso invisibili.
Stefano ci ricorda che la fede non è un rifugio privato, ma una responsabilità pubblica. Non si impone, ma si testimonia. Non grida, ma resta. E quando viene rifiutata, non risponde con l’odio, ma con una libertà che nasce dall’amore. È una lezione urgente in un tempo segnato da linguaggi violenti, da giudizi sommari, da muri alzati troppo in fretta.
Il giorno di Santo Stefano, subito dopo il Natale, ci obbliga a non separare la nascita di Cristo dalla sua croce, la gioia dall’impegno, la fede dalla vita reale. Ci ricorda che seguire Gesù significa lasciarsi trasformare, anche quando questo costa. Ma ci assicura anche che nessun gesto di amore è vano, e che persino le pietre possono diventare seme di speranza.
In un mondo che ha bisogno di testimoni più che di maestri, Santo Stefano continua a indicarci una strada possibile: quella di una fede umile, coraggiosa e libera, capace di restare umana anche nel momento più disumano.



