Il 4 settembre, a Pacentro, tra le montagne d’Abruzzo, si rinnova ogni anno una tradizione che porta con sé il sapore dell’antico e il respiro della fede: la Corsa degli Zingari. Non si tratta di un gioco né di una sfida sportiva, ma di un rito che affonda le sue radici nella devozione popolare e che ancora oggi conserva un carattere profondamente cristiano. I giovani del paese, a piedi nudi e senza alcuna protezione, si lanciano di corsa giù da un dirupo di pietra e ghiaia fino alla chiesetta della Madonna di Loreto, dove offrono il proprio sacrificio come voto di ringraziamento o di supplica.
La corsa non è mai fine a sé stessa: il dolore dei piedi che si feriscono sulle rocce, il fiato corto, le cadute, tutto diventa offerta, gesto penitenziale, testimonianza di un legame vivo con il cielo. In questo cammino difficile e rischioso risuona l’eco delle parole evangeliche: “Chi vuole venire dietro a me, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Quei passi affrettati e sofferenti sono la croce quotidiana che diventa preghiera, il desiderio di affidare a Maria e a Cristo le proprie fatiche, la propria vita, i propri desideri.
Alla fine della corsa, i partecipanti entrano nella chiesetta non come vincitori di una gara, ma come figli che portano la loro offerta. Il sangue che spesso macchia i piedi è segno di una fede che non resta parola, ma diventa carne e sacrificio. È la stessa logica del Vangelo: perdere qualcosa di sé per ricevere molto di più, rinunciare alla sicurezza per guadagnare la grazia. La comunità assiste in silenzio e con commozione, perché in quei passi corre l’anima di tutti, corre la speranza di un popolo che affida al cielo le sue fragilità e i suoi sogni.
La Corsa degli Zingari, che si celebra sempre il 4 settembre, non è folclore, ma liturgia popolare. È la prova che il cristianesimo sa incarnarsi nei gesti concreti e semplici, che la fede non vive solo nei templi di pietra ma anche nelle tradizioni che attraversano i secoli. È la certezza che Dio si lascia incontrare nella fatica, nel sacrificio, nella ferita offerta con amore. Così, ogni anno, il paese intero diventa un santuario a cielo aperto, e in quel correre scalzo, duro e insieme luminoso, si rinnova il miracolo della speranza cristiana: non è la velocità a contare, ma l’umiltà del cuore che corre incontro al Signore.